Intervento di don Alessandro Santoro al Cappellone di San Casciano VP
28 febbraio 2025
in occasione della presentazione del libro di Massimo Orlandi (edizioni Romena)
La rivoluzione della Cura – l’esperienza della Piazza del Mondo,
———————————————————————–
Non saprei cosa dire dopo quello che abbiamo ascoltato; è un po’ imbarazzante perché uno si sente piuttosto ‘piccolo’ di fronte all’altezza di questa straordinaria esperienza.
Anch’io sono stato a Trieste; ho conosciuto, respirato e costruito anche una relazione profonda con Gian Andrea e con Lorena; non a caso stasera ho avuto bisogno proprio di telefonare loro e dire: “Guardate, stasera sarò lì e ho bisogno di sentire la vostra voce”; e nell’ascoltarsi ci siamo, uso questa parola un po’ religiosa ma che vorrei potesse essere tradotta laicamente in ognuno di noi e da ognuno di noi, “benedetti”, ci siamo detti bene l’uno dell’altro.
La Cura è un movimento dal basso verso l’alto.
Mi è piaciuto molto il fatto che nel titolo del libro di Massimo, “La rivoluzione della Cura”, la cura è con la C maiuscola a sottolineare l’importanza di questa parola.
Che cos’è la cura per noi? Che cosa può voler dire curare un altro?
Mi affido a un altro maestro, don Lorenzo Milani che, prima ancora di Lorena e di Gian Andrea, ha dato valore a quel termine intraducibile che è “I care”.
La cura è prima di tutto accorgersi, è prima di tutto un movimento di kenosis, di abbassamento, come dice Lorena (dal basso verso l’alto).
La cura è un posizionamento diverso rispetto all’altro. Perché la vera cura è prima di tutto accorgersi dell’altro, è evidenziare che l’altro c’è e che tu sei lì perché lui possa essere un’integrità, una persona, un nome, una storia e quella storia va curata, va rimessa in evidenza.
E allora “I care”, mi sta a cuore, mi riguarda, ha a che fare con me.
Nel chassidismo ebraico, Levinas e Buber dicevano, e ci dicono ancora oggi, che non c’è un ‘io’ senza il ‘tu’ attraverso il quale il tuo ‘io’ si possa rivelare.
E la cura in fondo è questo: è sapere che se vogliamo conoscere, riconoscere noi stessi, dobbiamo avere qualcuno davanti che ci fa da specchio. E quando chi è davanti a noi è privato di quell’umanità, è un dovere imprescindibile restituirgli la cura che noi vorremmo avere.
Perché quello che noi vorremmo che gli altri potessero riconoscere in noi, dovremmo prima di tutto riconoscerlo noi nell’altro.
È proprio stando con chi questa cura non l’ha mai avuta che ti accorgi di quanto sia importante.
Non esiste il volontariato della cura
Ascoltando Massimo, vedendo queste persone a Trieste, sento un moto di commozione, di emozione. Ma non basta. Per riuscire a trasformare questa emozione, questa commozione, in una scelta, una scelta di senso, bisogna incontrare queste realtà.
Bisogna stare al marciapiede della storia degli altri, come direbbe Erri De Luca.
Quanta premura c’è, nel marciapiede della storia degli altri… E c’è premura anche quando quella storia ti sovrasta, ti distrugge, diventa specchio per la tua insipienza rispetto alla vita.
Vedete, secondo me non si può vivere, dare una mano agli altri perché questo mi fa star bene o perché mi aiuta a compensare la mia vita che si sviluppa sempre seguendo i soliti ritmi e le solite modalità.
Non esiste il volontariato della cura, con tutto il rispetto, ovviamente; anch’io sono volontario…Ma non esiste il volontariato della cura.
Esiste un posizionamento che deve essere una scelta, che deve rimanere quella e che rimane per sempre nel modo in cui ti relazioni, con cui guardi la vita, in cui incontri l’altro. Non smetterai mai di farlo ed è una grande benedizione per l’altro.
La “Piazza del mondo” è una preghiera
Quello che fa Lorena, che fa Gianandrea, e che fanno tutte quelle persone in quella piazza è una grandissima preghiera, un grido come i più grandi salmi biblici. È un grido sommesso, profondo, concreto. Quella è la più grande piazza-cattedrale del mondo, è veramente un luogo sacro.
C’è un grande momento nella storia biblica che è l’Esodo, al capitolo tre, quello del roveto ardente, quando Mosè vede un fuoco che brucia e non si consuma. Vede questo fuoco. E da questo fuoco esce una voce che lo chiama. Mosè risponde con una espressione importantissima della Bibbia che è “Eccomi” e si incammina verso questo fuoco. Ma a quel punto c’è la voce che gli dice “Fermati”.
Quella voce prima lo chiama, e Mosè risponde, e il fuoco divino dovrebbe essere contento perché Mosè va. Ma quella stessa voce che lo chiama, lo ferma, come a dire: manca qualcosa, non stai venendo davvero.
E gli dice così: “Togliti i sandali dai piedi perché il luogo che stai calpestando, il luogo in cui stai camminando, è sacro”.
E qual è il luogo sacro che Mosè sta calpestando? Il roveto ardente o lo spazio che c’è tra Mosè e il roveto ardente?
Mosè, nel vedere il roveto ardente va verso il roveto ardente perché quello è il segno del divino. Ma il vero luogo sacro è lo spazio che c’è tra Mosè e il roveto. Quello spazio sono tutte le “Piazze del Mondo”, sono gli uomini che si muovono, sono le periferie della storia, sono i nostri ragazzi, sono le nostre città, i nostri paesi. È quello il luogo sacro.
Il dovere di restituzione
Il marciapiede della storia sono i piedi che camminano, sono le scarpe che si distruggono nel troppo cammino.
In questo mondo così osceno, così orrendo, così assurdo, ci sono tante piccole e grandi realtà così, che salvano il mondo, che incidono tanto nella vita delle persone che pure magari passano lì per una notte, per un giorno in attesa di andare da altre parti a ritrovare a incontrare le famiglie che magari sono in altre città europee.
Chi vive quell’esperienza, parlo di Lorena, di Gian Andrea, di tutti i volontari, delle persone che hanno fatto una scelta di stare con loro, di sostenerli, di aiutarli, lo fa per un dovere di restituzione, direi quasi per un obbligo di restituzione.
Il dovere di restituzione è quello che permette a Lorena di non sentire più nemmeno l’odore di quei piedi maciullati e marci. Perché c’è un dovere di restituzione, non puoi non farlo.
È come riprendersi la vita, è come poter riuscire a dire a te stesso: domani posso aprire gli occhi e non vergognarmi di quello che non riesco a essere.
È un obbligo di restituzione.
Noi abbiamo il dovere di restituire quello che tratteniamo in più rispetto a quello che ci è sufficiente per vivere una vita all’altezza di dignità umana; è un dovere restituirlo perché tu possa ricevere la benedizione della vita e la possibilità di sentirti davvero umano.
Perché restare umano vuol dire questo, vuol dire rispogliarsi tutto quello che copre l’umano, che sovverte l’umano e che ricolma l’umano di qualcosa che ti nasconde alla vita.
Guardate tutti quelli che si arricchiscono, che corrono per riuscire ad avere, avere, avere, avere e che poi non riescono più a riconoscersi se non a perdersi e a pensare soltanto al potere, al dominio, all’accrescere la propria ricchezza e potenza.
Ecco, questo è quanto mi viene da dire e che forse dovremmo reimparare anche nelle nostre realtà. Abitare la povertà vuol dire restituirci la dignità di vivere la sobrietà, vuol dire essere capaci di ritrovare il senso della semplicità volontaria, della possibilità di vivere una vita semplice e poter riuscire a dire, come diceva Francesco, che anche questa è “Perfetta Letizia”.
don Alessandro Santoro (Comunità Le Piagge / Firenze)